Mi piacerebbe tanto che ciò che adesso scrivo, arrivi nei cuori di tutte le donne che come me hanno subito violenza. Ho scritto un libro “Sei ore e ventitré minuti”, che sono le ore che racchiudono ciò che ho passato, ma non sono qui per parlarvi di questo, ma di come ne sono uscita. Di come ne sono passata attraverso cercando di non farmi distruggere dalla paura e dal ricordo e da domande che tanto comunque non avranno mai risposte. Voglio dirvi che qualsiasi sia l’entità della violenza e dell’incubo che avete vissuto, potete uscirne, potete farcela. Non dimenticando, quello no, non sarà possibile, ma raccontandovi che sono cose che nella vita possono succedere. Sì, possono accadere perché la vita è fatta così, di cose belle e brutte, ma voi non ne avete colpa. Mai! Voi non siete colpevoli di niente, mai! Sia che abbiate indossato quel giorno una minigonna, io avevo un vestito appena sopra il ginocchio. Sia che vi siate truccate, io non lo ero. Sia che lo abbiate incoraggiato, io l’avevo respinto. Sia che siate belle, io ero normale. Sia che abbiate bevuto, io ero sobria. VOI NON AVETE COLPA DI NIENTE! Se incontrate la persona sbagliata, potete essere o fare tutto e il contrario di tutto e non avrà importanza, perché il problema non siete voi, ma chi avete difronte. Vi reputate sfortunate? Beh forse lo siamo state, forse incaute, forse temerarie, ma niente giustifica una violenza mai! O forse, vi dirò di più, siamo state molto fortunate, perché siamo ancora vive. Lo capite? Questa è la chiave per uscirne, capire che nella sfortuna siamo state delle miracolate. Rietenete che la vita sia stata ingiusta con voi? Beh forse lo è stata, ma è più giusta quando fa morire i bimbi di fame, o quando li rende orfani, o quando fa ammalare i giovani? Allora smettete di ritenervi vittime, perché vi è capitata sì una cosa orrenda, ma le vere vittime sono i nostri aguzzini, vittime di una società malata, di genitori anaffettivi, di teste marce. Voi potete reagire al dolore, potete farcela, dovete farcela! Oppure oltre la violenza subirete anche la sconfitta di esservi inaridite e smetterete di vivere, non solo per sei ore e ventitré minuti, ma per tutto il resto della vostra vita. Avete avuto paura? Certo è normale. Pensate che tutti gli uomini possano farvi del male? No, esistono uomini dolci che non vi toccheranno mai. Vivetelo come un inciampo, ma che sia un inciampo però, perché se lo state patendo dentro casa, in maniera ripetuta, questo allora no, dovete amarvi e mettere al più presto la parola fine. Uno schiaffo diventano due, tre, e poi si muore. Chi vi ama vuole il vostro bene, vi accarezza, non vi mena, non vi stupra, non vi maltratta. Non fate l’errore di scambiare la violenza per amore. L’amore è dolcezza. Basta piangere ragazze, prendete in mano la vostra vita, un brutto incontro non può e non deve rovinarvi l’esistenza, altrimenti avrà vinto lui e voi avrete perso. Volete perdere?! No, non lo volete, io lo so. Volete vincere la paura e quel dolore che conosco bene, ma per farlo dovete lottare, dovete essere più forti, più sane, più coraggiose, più innamorate della vita, di quella merda che vi ha stuprate, o segregate o maltrattate. Potete, dovete farcela! Potete tramutare l’orrore in una vittoria, credetemi! Nella più grande vittoria della vostra vita. Se vi serve io ci sono.
Essere scrittrice non mi cura dal mondo ma permetto alle parole di farmi compagnia mentre guarisco. In quel frangente sono nuda, ma con grazia. Mi salvo portando a riva le emozioni. E’ il più alto atto d’amore verso me stessa in soccorso a un grido, a una risata, a una vita nascosta che chiede di esser vissuta. Mi traduco, mi confesso, mi perdono. Apro le porte di case diroccate e disabitate assaporandone il profumo del silenzio, nei ricordi che le hanno abitate. Scrivo senza rinnegare il mio dolore, ma lo trasformo in senso. E’ come se portassi il mio cuore in valigia lasciandola negli angoli delle pagine, per poi arrivare al punto finale che non è mai una fine, anzi un respiro. Cammino per strada con le tasche piene di parole, poi m’inchino, intingo le mani nel fango nella speranza di portare agli altri un fiore.
Cose dette alle tre di notte
Hanno quella malinconia poetica che riesce a rendere profonde anche le cose leggere, e leggere quelle pesanti. Quando mi sveglio con i pensieri, anche quelli che fanno male, ma ci trovo dentro parole, immagini, musica, oppure silenzi pieni di senso. Sono le parole che non hanno il coraggio di uscire quando la vita è tutta accesa. Sono le verità scomode, quelle che si affacciano solo quando sono stanca abbastanza da non opporre resistenza, ma ancora sveglia abbastanza da sentirle. Dove le maschere si sciolgono e anche i silenzi parlano, e le ombre. Non si mente, non si finge. Si è solo umani, da soli spesso, feriti, o forse se si è fortunati felici, speranzosi o arrabbiati, ma comunque veri.
Vuoi salire da me?
Ma non ti mettere strane idee
Posso farti un caffè
Per guardare i tuoi gesti
Che io non lo bevo
Resto ad osservare mentre ti svesti
Quando ti togli la giacca
Come accavalli le gambe
Come onde della risacca
Voglio iniziare piano lentamente
Che a far l’amore son bravi tutti
Ma io voglio entrare nelle tue pupille nella tua mente
Scardinare le tue paure
Ficcarmici dentro con il mio cuore
Che fa un rumore strano scassato
Come quando le cose sono rotte
Cicatrici violente del passato
Che pare abbia fatto sempre a botte
Nella mia anima nessuno ci entra piano
Ma si fanculo chi se ne frega
Ti va di appoggiarci la mano?
Fermiamo questo battito d’ali
I tuoi occhi se pensano cambiamo colore
La barba di un giorno le occhiaie
Sei stanco felice o pieno di dolore?
Chiudo le finestre che della strada sale la città
Hai una briciola sul maglione
la metto tra le pagine della mia vita come pegno di fedeltà
Ma tu non parlarmi d’amore
Le parole sono stracci stesi al sole
Non fare promesse
Stammi a sentire
Anzi no
Stammi a capire
Nelle pieghe nei risvolti
Riempi per quando ci sarà assenza
Che sciocca si è freddato il caffè
Con lo zucchero o senza?
La notte che andai da papà, che lo raggiunsi nella sua casetta diroccata sulla spiaggia della Feniglia, è avvenuta in me una spaccatura, non subito ma poco tempo dopo. Quella notte fu in qualche modo magica, tutto era perfetto: mio padre nel parcheggio scalzo con il suo kikoi in vita, la luna luminosa, le cicale in sottofondo, il rumore della risacca a pochi metri, il vino rosso scadente e dolce che lui amava e di riflesso io l’ho amato in egual modo, lui poi sull’amaca del giardinetto di quel bungalow che cascava a pezzi e io difronte su una sedia traballante che lo guardavo imprimendomelo nella memoria, nella corteccia. Tutto era perfetto quella notte. Anche quando gli confidai della mia paura perché un uomo mi stava stalkerizzando, perché mi faceva le foto da una barca mentre stavo sulla spiaggia, perché me lo ritrovavo tra i cespugli in giardino di notte. Fu perfetto perché i miei modi e i miei tempi lo furono, perché il suo sopracciglio alzato denso di rabbia mi fece sentire protetta, perché le sue parole dicendo che sarebbe andato dal capo della polizia mi fecero sentire al sicuro. E così sorrisi poi, parlammo di poco altro e tornai a casa sollevata. Pochi giorni dopo fui violentata. Papà fu uno dei primi a saperlo… Tempo dopo, quando tornammo sull’argomento, non subito quindi, ma mesi dopo, mi aspettai da lui, erroneamente forse, delle scuse che non avvennero. Non perché lui potesse veramente proteggermi forse, nessuno avrebbe potuto, ma perché me lo promise quella notte, perché era l’unico uomo che sapeva, perché era mio padre cazzo, e perché il suo intervento alla polizia non risolse un emerito cavolo di niente. Ma io non mi aspettavo scuse per non esserci realmente riuscito, ma scuse d’amore dovute dal dolore: Amore mi dispiace, mi dispiace di non averti saputa proteggere. Mi dispiace! E io gli avrei risposto che non poteva proteggermi, che non era stata colpa sua, lo avrei tranquillizzato e discolpato da tutto. Ma quel dispiacere, quelle scuse non arrivarono, l’amore non arrivò. E allora io in qualche modo lo ritenni colpevole, non dello stupro ovvio, ma del mancato amore in relazione alla violenza. Pochi giorni fa, una quarantina più o meno, ho ricevuto uno dei dolori più forti e grandi della mia vita, misto a delusione. A causa del quale ho poi avuto un crollo verticale. In questa storia, la sofferenza più grande è stata data dalle mancate scuse, anche queste scuse d’amore, non tanto per il fatto in sé. Io ho sbagliato e ferito molte volte nella mia vita, quasi sempre senza volerlo, ma ho sempre chiesto scusa, ho supplicato anche di esser perdonata, anche se non mi ritenevo così colpevole, ho promesso che avrei provato a cambiare, mi sono mortificata per aver fatto del male alla persona che amavo. Pur senza volere ero stata causa del suo dolore: mi dispiace se ti ho ferita, ma le cose sono andate così… mi aspettavo di sentirmi dire. Invece il silenzio, ancora una volta nella mia vita un altro uomo per me fulcro, resta in silenzio. “Non ho fatto niente”, non basta e non è vero! Scusa amore, scusa Domi… scusa. Ancora una volta ho pensato che l’amore potesse proteggere ma non lo ha fatto. Se ami ti scusi se crei dolore, perché vedere la persona che ami soffrire a causa tua, e non scusarsi, è la cosa più atroce si possa fare. Non mi rileggo, non ho voglia più di niente! Io non so più questo mondo di cosa sia fatto, la gente di cosa sia fatta… certo non della stessa sostanza delle stelle.
Non so se perché sia dimagrita tanto, non so se siano le medicine che mi ha dato lo psichiatra, non so e basta, ma ci sono giorni che si percepisce un freddo che non c’è. Giorni di ombre che ci avvolgono nonostante la luce che ci circonda. Giorni di totali, in cui tutti gli anni che hanno preceduto la nostra vita si affacciano e si annaspa per cercare di far quadrare il cerchio. Non con risposte che tanto comunque non avrei, non sono quelle che cerco, ma con la forza e il coraggio che questa vita richiede ed io non ne ho più ora. Giorni che vaffanculo mi fermo qui. Fatti di ore che passando adipose e pensi di esser sempre stata forte abbastanza, anzi, più del dovuto, e non ne hai più voglia. Deponi le armi, tutto troppo. E non centra l’infanzia, non c’entra un padre assente, non c’entra una mamma granitica, una nonna saggia. Non c’entra la mia voglia e bisogno sempre di farmi vedere all’altezza, di cosa poi boh! Non c’entra la violenza, la mia voglia di farcela, di amare senza riserve. Non c’entra l’esser consapevole di aver vissuto, fatto e costruito tanto. Niente c’entra. Non c’entro io. Ad un certo punto qualcosa si rompe. Io. Ecco cosa non c’entra. Singolarmente ce l’ho sempre fatta, nel totale ora no. Un mal de vivre che supera ogni logica, ogni raziocinio. Le vedo le cose belle intorno, le vedo bene ma non le vivo più ora. Mi sono rotta, non stufata, ma rotta dentro. Frantumata. C’è un limite entro il quale si può combattere, io l’ho superato. E mi dispiace preoccupare chi mi circonda, ma me ne sono preoccupata troppo. Non si può essere felici, all’altezza, forti, sorridenti sempre per non far impensierire gli altri. Per far sì che pensino: vedi che brava?! No, non si può sempre far finta di niente e ricominciare. Non ho più voglia di far finta di niente. Non ho più voglia e basta. Di niente. Mi mancano le basi oggi. La mia base sulla quale avevo fondato il mio stare al mondo. Ho sempre creduto che l’amore bastasse, che il mio amore bastasse a risolvere tutto. Mi sono sbagliata. Sono più fragile e piccola e insignificante e insufficiente e inutile e crepata di ciò che pensavo. E non è la terapia che sto facendo a farmi sentire così, anzi, il medico mi ribadisce quanto io sia valida e strutturata e non so che cazzo e quante minchiate io stia ascoltando mentre mi stordisce con farmaci! No, sono io. Perché purtroppo sono una donna intelligente e vado oltre tutto, oltre le parole. Ma se la vita ad un certo punto ti sposta il fulcro, se si decentra e tu ti riassesti una due tre volte, poi ad un certo punto ti dici e le dici: Ahò fai come cazzo ti pare, spostati pure, io resto qua. Non mi rileggo. Non serve, e sticazzi. Ecco, sticazzi la lotta, la solitudine, l’amore, dare, credere. Ma sì, fate come vi pare, restate andate via, tradite… fate come vi pare. Avete vinto. O forse no. Che fa, che cambia? Io sono qui, con tutte le mie parti rotte e voglio stare così. Ho sbagliato tutto. Il mondo è pieno di chi vince o perde. Mi tengo il mio amore… Che fa se resto sola?! Tanto non è servito. Che fa…
E vorrei potergli dire: Che fa se tradisci, se racconti di essere single da anni mentre hai l’anima incatenata, se rinneghi, se parli delle storie passate con una ex tranne che di noi… che fa se urli al mondo che non esisto più?! E che fa se il mondo ti crede? Tu gli credi, ti credi? Bloccami ovunque, ma non a metà, ovunque dico! Non a metà… Non permettere che io ti raggiunga mai più in nessun modo. Non a metà… Che fa… Buttami via.
Ma tu… come stai? Chissà se mi pensi… Cosa racconti…? Sei felice tu…? Innamorato ma non di me…? Era questa la libertà che ti immaginavi da me…?
Bene, fai bene… Ovunque sia, comunque sia, se stai meglio, fai bene…
Non siamo altro che filtri, tutto è fottutamente relativo. Tranne l’amore, l’amore non si filtra.
E tu, come stai?


Ho imparato a sciare mentre imparavo a camminare. Mamma, juniores italiana, aveva riposto in me grandi speranze. Divenni forte, molto forte, l’agonistica mi forgiò e iniziai a vincere gare su gare. Arrivò il giorno del Test d’Oro, la competizione più importante dell’Engadina, ovviamente Daniel, il mio istruttore che mi seguiva da anni, mi segnò. Chiamai papà che non mi aveva mai vista sciare, e dico mai! Mi feci promettere che ci sarebbe stato, che sarebbe venuto a vedermi, e così fece: lo promise. Attaccai che ero al settimo cielo, anche se la pressione su di me a quel punto era tanta, sia la federazione di sci di st. Moritz che mamma e papà si aspettavano da me il massimo. La sera prima della gara, dopo l’allenamento, papà mi chiamò e non ricordo che scusa accampò ma mi disse che non riusciva più a salire. Da allora mi ripromisi che non avrei più creduto alle promesse e decisi che per avvalorare qualsiasi tesi, d’ora in avanti, avrei preso in considerazione solo la parola data. Durante la gara cascai, ma vinsi comunque, arrivai prima! Mamma una volta a casa chiamò papà per comunicarglielo. Non gli volli parlare. La premiazione ci sarebbe stata solo nel pomeriggio ma da Daniel avevamo avuto la soffiata che ce l’avevo fatta. Non esistevano i telefonini purtroppo, e non credo che mamma fece nessuna foto, perché mi sarei voluta rivedere oggi su quel podio con il campetto gremito di gente, io sul gradino più alto, nonostante fossi l’unica italiana contro ragazzi svizzeri che si allenavano costantemente. Sorrisi sollevando la medaglia ma ricordo come fosse ora il primo vaffanculo silenzioso a mio padre. Oggi pensavo che, nonostante fossi una promessa nello sci, papà è morto senza avermi vista scendere una sola volta nella vita. Bah…
Una o due, forse tre in tutta la mia vita sono state le volte in cui sono andata al mare con mio padre. Quando è accaduto era tale l’emozione che cercavo di essere la bambina perfetta per passare una giornata perfetta. Guardavo il suo fisico asciutto, sportivo e scattante in costume e mi stupivo di stupirmi. A casa mia non si girava mai nudi o semi vestiti, per cui era una sorpresa per me rendermi conto che fosse così bello e perfetto. Sembra incredibile lo so, ma era proprio così, non conoscevo niente di lui che fosse solitamente coperto dai vestiti, per cui mi ritrovavo a studiarlo mentre si muoveva, come si fa con un estraneo che in qualche modo ti affascina. I muscoli che si muovevano sulla schiena, le sue gambe magre, i peli che non aveva più sullo stinco e quando gli chiesi perché mi disse fosse a causa dei calzini, e io ci ragionai su… Al terzo chilometro della pineta che costeggiava la spiaggia della Feniglia, si tagliava verso il mare e si sbucava in un tratto di sabbia che era quanto di più vicino a quelle spiagge deserte di fine settembre. Perchè papà detestava la gente, il caos, le urla dei bambini. Veniva solo a determinate condizioni, e tutti cercavamo di rispettarle pur di averlo con noi. Essendo uno dei punti più selvaggi dell’argentario, era costellato di tronchi, rami, pezzi di reti da pesca e qualsiasi cosa avesse portato a riva l’ultima burrasca. Il suo gioco preferito era quello di cercare oggetti particolari che il mare ci aveva regalato, facendoci credere che nel farlo ci fosse qualcosa di magico. La spiaggia era molto profonda, almeno una cinquantina di metri, in alcuni punti, con le dune molto di più. Così, nonostante la sabbia fosse quasi bianca, era bollente camminarci sopra vista la distanza dal mare, per cui ci bruciavamo i piedini nel tentativo di saltare da qualsiasi cosa facesse ombra fino all’ombra successiva. Ovviamente non si trovava mai niente di speciale, tranne vecchi accendini, galleggianti delle reti e conchiglie, ma la magia stava nella ricerca che durava forse ore ed ore. Poi si costruiva un vulcano, poi una capanna con tronchi ricoperti poi da kikoi indiani e piste infinite per le biglie. Ma noi non le avevamo le biglie, per cui ci accontentavamo di prendere a schicchere delle palline di paglia di cui la spiaggia era ricoperta. Chissà da dove venissero, e perché…non l’ho mai scoperto… L’ultima volta che andai al mare con papà, il tempo era stupendo ma con grossi cavalloni, scia di un temporale da poco passato. Papà era nervoso, non amava vederci in acqua con quelle onde giganti, ma non essendoci mai non poteva sapere, o forse ovvio che lo immaginasse, che noi con mamma facevamo il bagno con qualsiasi tempo, anche con il diluvio, anche con la burrasca. “Stai a riva Dodo, la corrente porta via…” Mi disse mettendosi di vedetta. Ma io ero troppo emozionata: “Papà guarda come mi tuffo… Papà guarda come surfo… Papà cronometra quanto sto sotto l’acqua…” Continue richieste e lui applaudiva e mi incitava, ma era nervoso. Finché un onda mi prese e mi sbatacchiò tra le sue braccia facendomi riemergere che tossivo. Avevo bevuto ma non era un problema per me, non mi ero spaventata, ma papà si vide costretto a venirmi a prendere. Aveva il sopracciglio destro alzato e questo avveniva o quando era molto arrabbiato o molto preoccupato. Quando mi agguantò, una serie da tre di onde giganti ci prese e ci trascinò a largo, io non avevo paura, papà entrò nel panico cercando di non darlo a vedere, ma era impossibile nascondermi qualcosa, ero una bimba attenta a tutto, figuriamoci a mio padre che non vedevo mai, e che in effetti era la prima volta che lo vedevo nuotare. Oddio, pensai, era la prima volta veramente che lo vedevo nuotare! Arrivati a riva, mamma era così tranquilla che parlava e rideva con mia zia Sonia, la mia zia nicaraguense e manquin, moglie di mio zio Giacomo, il mio zio pazzo pilota d’aerei. Papà invece era ancora scosso, mi portò un asciugamano e un pezzo di pizza e ci sedemmo sulla battigia.
“Papà hai avuto paura?”
Non rispose, forse non era scosso ma arrabbiato. Mi dispiacqui tanto, avevo fallito. Così stetti zitta e tanto le lacrime mischiate all’acqua e al sale mica si vedevano. Papà andò a smaltire passeggiando, io andai da mamma.
“Papà è arrabbiato con me…” Le dissi affranta.
“Ma no amore, papà ha solo paura dell’acqua.”
“Cosa? Paura del mare?”
“Si, perché da piccolo, in colonia, dove lo mandavano i nonni, rischiò di annegare. Da allora non ama farsi il bagno se non dove tocca e con il mare calmo.”
Si era alzato il vento e avevo le mani cotte e i brividi, così andai sulla sabbia bollente e mi stesi pancia a terra, la guancia appoggiata ai granelli bollenti, e con l’unico occhio libero osservai papà camminare in lontananza. Io non le conoscevo le sue paure, non conoscevo bene neanche chi e cosa amasse… Quante cose non sapevo di lui, pensai. E quante non ne avrei mai sapute, penso tutt’ora. Ti farei tante domande ora papà… Mi manchi tanto. Buona Pasqua, ovunque tu sia.
A differenza dei social, che questo spazio mi consente, grazie a Dio, di eliminarli praticamente del tutto, loro e il loro marciume, qui sopra i commenti possono invece essere anonimi. Su molti articoli poi non li ho neanche attivati, un po’ perché non so ancora bene come funzioni questo blog, un po’ perché in fondo non ne ho bisogno. Inoltre, è per me come avere un diario dove non so se a leggermi sia una persona, cento, mille o nessuno, e anche questo mi piace. Nessuna interazione, né per me né per voi. Fantastico! Io faccio ciò che al mondo amo di più fare, e voi, se siete qui sopra forse è per leggermi, forse solo per curiosità, ma al netto di tutto, per qualsiasi motivo sia, va bene ad entrambi. Insomma, non si sta qui per un like o per un riscontro, almeno non io, ma unicamente per dare, ed altro non è che il mio mestiere. P.S. Lea è il libro che sto scrivendo, qui metto solo alcuni passaggi, il resto se vorrete e se riuscirò, lo troverete un giorno in libreria. D.